lunedì 17 dicembre 2012

Kierkegaard e l'angoscia

L’angoscia come vertigine della libertà

Il tema centrale della filosofia di Kierkegaard è la concezione dell'esistenza come possibilità. Egli affronta direttamente, nelle sue due opere fondamentali, Il concetto dell’angoscia (1844) e La malattia mortale (1849), la situazione di radicale incertezza, di instabilità e di dubbio, in cui l’uomo si trova per la natura problematica del modo di essere che gli è proprio. Ne Il concetto dell’angoscia questa situazione è chiarita nei confronti del rapporto dell’uomo con il mondo, ne La malattia mortale nei confronti del rapporto dell’uomo con se stesso.
Le diverse determinazioni che può prendere la vita umana non sono altro che possibilità che l'uomo si trova di fronte e tra le quali deve scegliere. Questa totale apertura verso il possibile dà vita all'angoscia. Essa è quella "vertigine" connaturata all'uomo che deriva dalla libertà, dalla possibilità assoluta. Subentra l'angoscia quando si scopre che tutto è possibile. Ma quando tutto è possibile è come se nulla fosse possibile. C'è sempre la possibilità dell'errore, del nulla, la possibilità di agire con esiti imponderabili. L'angoscia, a differenza della paura, che si riferisce sempre a qualcosa di determinato e cessa quando cessa il pericolo, non si riferisce a nulla di preciso e accompagna costantemente l’esistenza dell’uomo.                                                                                                  
L’angoscia è strettamente legata al peccato originale ed è il fondamento dello stesso peccato originale. Prima di ricevere da Dio il divieto di mangiare dall'albero del bene e del male, Adamo era innocente: non aveva, cioè, la coscienza delle possibilità che gli si aprivano davanti. Quando riceve da Dio il divieto, acquista la coscienza di "poter" sapere la differenza fra il bene e il male. L'angoscia, il sentimento delle possibilità che gli si aprono davanti, mettono Adamo nella possibilità di peccare, di infrangere il decreto divino.

« Il divieto divino, dice Kierkegaard, rende inquieto Adamo per sveglio in lui la possibilità della libertà. Ciò che si offriva all'innocenza come il niente dell'angoscia è ora entrato in lui, e qui ancora resta un niente: l'angosciante possibilità di potere. Quanto a ciò che può, egli non ne ha nessuna idea, altrimenti sarebbe preoccupato ciò che ne segue, cioè la differenza tra il bene e il male. Non vi è in Adamo che la possibilità di potere, come una forma superiore di ignoranza, come un'espressione superiore di angoscia, giacché in questo grado più alto essa è e non è, egli l'ama e la fugge».
(“Il concetto dell’angoscia”)

L’angoscia è libertà finita e così si identifica con il sentimento della possibilità.
Il passato può angosciare solo quando si presenta come futuro, cioè come una possibilità di ripetizione. Così una colpa passata genera angoscia solo se non è veramente passata, poiché se fosse tale potrebbe generare pentimento, non angoscia. L’angoscia è legata a ciò che non è ma potrebbe essere.
Kierkegaard la collega con il principio dell’infinità o dell’onnipotenza del possibile, principio che egli esprime dicendo : «Nel possibile, tutto è possibile». Per questo principio, ogni possibilità favorevole all’uomo è annientata dall’infinito numero delle possibilità sfavorevoli. Infatti scegliere una possibilità non significa garantirsi il successo per ciò che essa prospetta. Infatti una possibilità può sempre venir meno o non realizzarsi. E neppure la sua realizzazione è sicura e definitiva, perché nuove possibilità avverse possono sopraggiungere. Inoltre l'uomo vive immerso in un mare di possibilità minacciose: non c'è vita che si sottragga alla possibilità della morte; né stato di benessere che sia sicuro da ogni rischio; non c'è virtù o buona volontà che non sia soggetta alla possibilità del peccato. Inoltre è l’infinità delle possibilità che rende insuperabile l’angoscia e ne fa la situazione fondamentale dell’uomo nel mondo.

Se l'angoscia subentra nel rapporto tra l'io e il mondo esterno dalla consapevolezza che tutto può essere e quindi dall'ignoranza di ciò che accadrà, la disperazione invece subentra nel rapporto tra l'io con sé stesso. La disperazione è dovuta al fatto che la possibilità dell'io, che scelga o meno di volere se stesso ossia se decida o meno di accettarsi per ciò che è, conduce sempre ad un fallimento:
  • Se l'io sceglie di volere se stesso, cioè sceglie di realizzarsi, viene messo di fronte alla sua limitatezza e all'impossibilità di compiere quanto ha deciso.
  • Se l'io sceglie di non volere se stesso e quindi di esser altro da sé, si scontra nuovamente con un'altra impossibilità.
Ne consegue, in entrambi i casi il fallimento e quindi la conseguente disperazione, definita da Kierkegaard «malattia mortale» nell'omonima opera del 1849. Mortale non perché conduce alla morte, ma perché essa fa sperimentare all'uomo la sua incapacità di vivere, la sua non vita, la sua morte spirituale.

Fonti:
N. Abbagnano G. Fornero, Le basi del pensiero. Storia e tesi della filosofia vol.3, Paravia, 2007

mercoledì 12 dicembre 2012

Schopenhauer e l'amore

L'amore come strumento della natura

Secondo il filosofo tedesco Arthur Schopenhauer l’unico interesse della natura è la sopravvivenza della specie. L’individuo appare infatti soltanto uno strumento per la specie, fuori dalla quale egli non ha alcun tipo di valore.
Questa concezione trova la sua manifestazione nell’amore che « si impadronisce della metà delle forze e dei pensieri dell’umanità più giovane». Schopenhauer ritiene l’amore un elemento fondamentale per l’individuo in quanto è uno dei più forti stimoli dell’esistenza:

« non esita a penetrare, disturbando, tra gli accordi degli uomini di stato e tra le ricerche dei dotti, è capace di introdurre le sue letterine amorose e le ciocche dei capelli nei portafogli ministeriali e nei manoscritti filosofici, ordisce ogni giorno le trame più complicate e cattive. Scioglie i vincoli più stretti, conduce a sacrificare a volte la vita o la salute, la ricchezza il rango e la felicità, anzi priva di coscienza l’onesto e rende traditore il fedele».

(Supplementi al “Mondo come volontà e rappresentazione”, cap. XLIV)

L’amore è talmente potente da rendere Cupido « il signore degli dei e degli uomini», gli uomini sono convinti che il raggiungimento dell’amore sia lo scopo della propria vita e che esso dipenda esclusivamente da loro stessi e dalla loro volontà. In realtà dietro le sue lusinghe e il suo incanto sta il freddo genio della specie il cui unico scopo è la perpetuazione della vita. Per dirlo in altre parole lo scopo per cui l’amore è voluto dalla natura è solo l’accoppiamento. Questo significa che l’uomo è lo zimbello della natura, poiché egli crede  di realizzare la propria personalità attraverso l’innamoramento, il quale si traduce nel ciclo accoppiamento – procreazione, ma la verità è che egli  sta solo svolgendo il compito per cui la natura lo ha creato.
Dimostrazione dell’essenza biologica dell’amore è la triste constatazione che la donna, dopo aver adempiuto alla procreazione e all’allevamento dei figli, perde ben presto bellezza e attrattive, gli elementi che all’inizio dell’innamoramento attirano l’uomo. Ma se l’unico compito dell’amore è quello di essere lo strumento d’eccellenza per la continuazione della specie, non c’è amore senza sessualità. A questo proposito Schopenhauer scrive:

« Ogni innamoramento, per quanto etereo voglia apparire, affonda sempre le sue radici nell’istinto sessuale». 

Ed è per queste ragioni che l’amore procreativo viene inconsapevolmente avvertito come “peccato” e “vergogna”. Esso commette infatti il peggiore dei delitti: la nascita di altre creature destinate a soffrire incessantemente, poiché per Schopenhauer la vita è dolore per essenza.
Ma se l’amore non è altro che « due infelicità che si incontrano, due infelicità che si scambiano e una terza infelicità che si prepara», l’unico amore che si può elogiare non è quello dell’ éros, ma quello disinteressato della « pietà»:

« Quel che dunque bontà, amore e nobiltà possono fare per altri, è sempre nient’altro che lenimento dei loro mali; e quel che per conseguenza può muoverle alle buone azioni e opere dell’amore, è sempre soltanto la conoscenza dell’altrui dolore, fatto comprensibile attraverso il dolore proprio, e messo a pari di questo. Ma ciò che risulta il puro amore è, per sua natura, compassione».

(“Mondo come volontà e rappresentazione”)